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USA. Aziende farmaceutiche: fatturati enormi ma che stranamente non generano profitti

Case farmaceutiche che non pagano le tasse

Internazionale – 28/07/2024 – Alessandro Lubello, giornalista di Internazionale

Negli Stati Uniti le grandi case farmaceutiche registrano fatturati enormi grazie al fatto che il paese ha i prezzi dei farmaci più alti del mondo: secondo alcune stime sono circa tre volte più alti che in qualunque altro paese e contribuiscono alla maggior parte delle entrate delle aziende del settore. Eppure, osservano Brad Setser e Michael Weilandt, due economisti del centro studi specializzato in politica estera e affari internazionali Council on foreign relations (Cfr), tutto questo non si traduce in utili che generano tasse per il fisco statunitense.

Le aziende sono in perdita: nel 2023 la Pfizer ha chiuso il suo bilancio negli Stati Uniti in rosso per 4,4 miliardi di dollari, la AbbVie per 3,5 miliardi, la Merck per 15,6 miliardi, la Johnson & Johnson per due miliardi. Tra le grandi case farmaceutiche statunitensi solo la Eli Lilly ha registrato utili, per quanto relativamente esigui: novecento milioni di dollari.

Com’è possibile che fatturati enormi generino perdite? Le aziende ci tengono a precisare che i prezzi alti permettono di finanziare le loro costose ricerche. Ma Setser e Weilandt spiegano che, come tutte le multinazionali, anche le case farmaceutiche sfruttano le norme (e le lacune) dei regimi fiscali per far comparire i loro utili in paesi dove le tasse sono nettamente più basse o addirittura nulle.

La AbbieVie, per esempio, è riuscita a concentrare le entrate assicurate dal suo redditizio farmaco Humira nelle Bermuda, dove non paga l’imposta sugli utili societari. In particolare, l’azienda fabbrica l’Humira a Puerto Rico, un territorio che appartiene agli Stati Uniti ma non è inserito nel calcolo della base imponibile per le imposte dovute a Washington; la sua controllata a Puerto Rico, inoltre, paga generosi diritti di brevetto alla filiale della AbbieVie alle Bermuda, dove finisce il 99 per cento (dati del 2022) degli utili.

È per questo che nel 2023 i principali sette gruppi farmaceutici attivi negli Stati Uniti non solo non hanno pagato imposte, ma addirittura potevano vantare un credito verso il fisco di 250 milioni di dollari. E non si è trattato di un anno particolare, aggiungono i due economisti: se si confrontano i dati del 2022 o del 2021 non ci sono differenze significative. Con l’eccezione della Pfizer, che due anni fa non è riuscita a portare fuori degli Stati Uniti gli enormi incassi generati dal suo vaccino contro il covid-19, probabilmente perché il suo sviluppo era stato finanziato anche da fondi pubblici della Casa Bianca.

Il paradosso è che un’azienda come la Novo Nordisk, diventata ricchissima grazie al farmaco per dimagrire Ozempic, paga le tasse nel suo paese d’origine, la Danimarca; le aziende farmaceutiche svizzere le pagano in Svizzera, quelle francesi in Francia. Le statunitensi, invece, sfruttano un regime fiscale che gli permette di pagarle in Irlanda, in Belgio, alle Bermuda, a Malta o a Singapore. Il problema ovviamente riguarda le multinazionali di tutti i settori: la Apple, per esempio, paga più tasse all’estero (in gran parte in Irlanda) che negli Stati Uniti.

Oggi l’Irlanda è di gran lunga il più grande paese esportatore di farmaci negli Stati Uniti: nel 2023 ha registrato in questo ambito una quota di mercato doppia rispetto al Canada, alla Cina, all’India e al Messico. Le isole Cayman e le Isole Vergini Britanniche sono le più grandi esportatrici di servizi finanziari verso il mercato statunitense, mentre le Bermuda primeggiano nel settore assicurativo. Uno studio del Fondo monetario internazionale uscito nel 2017 ha dimostrato che gli investimenti stranieri fatti a livello globale dopo la grande crisi del 2008 non sono crollati in gran parte grazie ai capitali passati per gli snodi dell’elusione fiscale.

Senza dubbio il caso delle aziende farmaceutiche è clamoroso e richiederà un intervento del governo statunitense. Tuttavia, ha scritto Setser in un articolo per la rivista statunitense Foreign Affairs, ci dice molto anche sullo stato attuale della globalizzazione. Negli ultimi anni è stata data a più riprese per finita in seguito al successo di leader politici nazionalisti e protezionisti e ai conflitti commerciali tra le grandi potenze, in particolare tra gli Stati Uniti e la Cina. In realtà, precisa Setser, la globalizzazione si sta dimostrando particolarmente resistente: nonostante dazi, divieti e minacce di conflitto, le merci, i servizi e i capitali continuano a farsi strada sulle rotte globali.

Nota:

Nella classifica dei paradisi fiscali stilata dal gruppo di pressione Tax Justice Network, l’Irlanda è undicesima. Questo Stato da cinque milioni di abitanti (meno della Campania) ha ingolosito le aziende di tutto il mondo con la sua aliquota del 12,5%. Oggi i settori dominati dalle multinazionali estere valgono più della metà del Prodotto Interno Lordo (PIL) e contribuiscono a circa un quarto del gettito fiscale.

Nel 2022 è stato toccato il record di 22,6 miliardi di euro di introiti fiscali, con un +48% sull’anno precedente. Cifre che peraltro potrebbero essere ben più alte se venisse applicata una tassazione equa. Il Tax Justice Network parla di 12 miliardi di euro persi ogni anno per questo motivo, cioè 2.661 euro per ogni singolo cittadino. Sarebbero sufficienti per sostenere il 71% della spesa sanitaria nazionale. Oltretutto, il denaro che le multinazionali versano all’Irlanda è – di fatto – sottratto ai loro Paesi d’origine: il danno è stimato in 9,2 miliardi, e si arriva a 17,5 considerando anche i privati.

L’Irlanda sottrae agli altri Paesi denaro attuando di fatto comportamenti da paradiso fiscale. E ora punta a reinvestire i proventi di tali pratiche per arricchirsi ulteriormente dando vita ad un fondo sovrano. Esattamente come fanno le grandi multinazionali che si servono del fisco compiacente di Dublino.

(Fonte: Valori)

 

Redazione Fedaisf

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