“Per dare slancio al settore farmaceutico non c’è un tema unico della governance che deve essere riformato. C’è il payback, ma c’è anche la questione, urgente, della rivalorizzazione di intere classi di farmaci che sono stati devalorizzati in passato”. Intervista al presidente di Farmindustria Marcello Cattani
Alla vigilia della Legge di bilancio, i dossier che riguardano la sanità e la farmaceutica sono molti. Investimenti, payback, sostenibilità industriale, valorizzazione del farmaco, autonomia strategica e digitalizzazione sono solo alcuni dei tantissimi tasselli su cui bisogna puntare. Per farlo, però, emerge sempre con maggiore forza l’esigenza di maggiore cooperazione fra tutti gli attori coinvolti, capacità di programmazione, approccio sistemico e lungimiranza. Ma soprattutto un maggiore e più proficuo dialogo fra industria e istituzioni. Ne abbiamo parlato con il presidente di Farmindustria Marcello Cattani, per avere una visione completa dei passi che già sono stati fatti e quelli ancora da fare.
Payback, ne parliamo da tanti anni ma il problema ancora non sembra risolto…
Ci sono altri aspetti su cui, secondo lei, dovremmo accendere i riflettori?
Certo che sì. Non dobbiamo dimenticare che anche la convenzionata ha un meccanismo di payback dove lo sforamento è al 100% a carico dei privati e a questi si aggiungono altri due payback specifici a carico delle aziende, uno pari all’1,83% del prezzo e l’altro dello 0,6%. Sono costi per le imprese in vigore da molti anni, che equivalgono al 4% del ricavo industria e ci penalizzano per attrazione investimenti e competitività.
Cosa bisogna riformare, dunque, per dare slancio vitale al settore?
Come?
Rivedendo i prezzi di riferimento e le liste di trasparenza, per evitare in primo luogo carenze di farmaci, ma anche per dare supporto alla sostenibilità industriale. Sono due aspetti, quello del payback e della rivalorizzazione, che hanno lo stesso identico peso strategico sul settore ma anche sulla salute dei cittadini.
In che modo?
Perché il payback limita i farmaci innovativi, ma la mancata sostenibilità industriale ci priva di altri farmaci essenziali. Sono due facce della stessa medaglia che frenano gli investimenti e i miglioramenti nell’accesso alle cure. Fortunatamente il nostro Paese, che è leader nell’industria farmaceutica in Europa, ha una struttura industriale peculiare e possiede aziende sia a capitale italiano che a capitale internazionale, entrambi essenziali, che ci consentono ancora di contribuire positivamente allo sviluppo dell’Italia. Quello che dobbiamo fare, come sistema-Paese, è attrarre e incentivare gli investimenti per renderci competitivi, e gli aspetti su cui dobbiamo lavorare sono appunto due, il payback e la rivalorizzazione dei farmaci.
Stiamo parlando di due grandi dossier…
Grandi, ed entrambi fondamentali. Dobbiamo renderci competitivi e sostenibili su ambedue per generare valore e la cosa non può e non deve essere mistificata perché è la corretta rappresentazione unitaria di un intero settore.
E abbiamo capito, nel nostro Paese, il valore della salute?
Le cose sono cambiate. Abbiamo capito, finalmente, che la salute rappresenta non un costo ma un investimento. I numeri, del resto, dimostrano che chi investe con un orientamento value based cresce anche nel Pil. Si tratta di una politica dettata da una visione strategica che è mancata per troppo tempo. E che finalmente sembra essere tornata.
Quindi viviamo un momento di dialogo fra l’industria e la politica?
Assolutamente sì, la politica sta ascoltando l’industria e l’industria, da parte sua, ce la sta mettendo tutta per far capire quali sono i meccanismi che possono garantire sostenibilità e competitività e, di conseguenza, autonomia e sicurezza.
Si riferisce alla dipendenza dagli altri Paesi?
Sì. E il governo ha dato un segnale importante anche nell’opposizione mossa all’Europa rispetto alla proposta della Commissione Europea di riforma della legislazione farmaceutica, che anziché supportare l’industria del farmaco ne mina la competitività. Il tutto mentre altre realtà, come Cina e Usa, viaggiano veloci…
Quindi dalla politica arriva un segnale di cambiamento?
Sì, da parte di tutti i dicasteri. Dal ministero della Salute, con Schillaci, al Mimit, con Urso e al Mef con Giorgetti, ma anche i ministri Tajani, Fitto e Bernini, che lavora su un tema cruciale come quello della Ricerca. Non dimentichiamo che sebbene siamo l’ottava economia mondiale, gli investimenti pubblici in ricerca sono solo lo 0,7% del Pil. Siamo dietro persino alla Svezia, un Paese relativamente piccolo che però evidentemente investe in modo efficace in ricerca e sviluppo.
Altre criticità?
Un paio, sicuramente. La prima riguarda il modello della salute organizzato in regioni, che se da un lato cerca di garantire la prossimità, dall’altro genera grandi differenze all’interno del territorio nazionale, basti pensare ai Lea. Vanno bene le regioni, ma gli obiettivi finali devono essere comuni e condivisi e non locali.
La seconda?
La seconda riguarda la digitalizzazione, che sta diventando sempre più centrale ed è un elemento chiave. Nonostante l’Agenas stia lavorando molto e bene sul tema, servirebbe un’Agenzia nazionale per la salute digitale e una data governance per l’uso secondario dei dati, perché il tema è troppo importante e deve essere affrontato con un approccio sistemico.
Come vede il futuro?
Bene, la politica ora deve avere visione strategiche e fare scelte coraggiose. Negli ultimi cinquant’anni spesso non è avvenuto, ma finalmente vedo uno spiraglio di luce.
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