L’Agenzia Italiana per il Farmaco (Aifa) ha pubblicato il primo Atlante delle disuguaglianze sociali nell’uso dei farmaci, un rapporto che analizza il consumo di medicine alla luce delle disparità socio-economiche sul territorio italiano. Il rapporto, che si basa sui dati del 2018, si concentra sui farmaci utilizzati nel trattamento delle malattie croniche (ipertensione, colesterolemia, diabete etc.) e contiene parecchie informazioni interessanti. Per esempio, smonta il luogo comune secondo cui nel sud Italia si conduce una vita più sana: i dati dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali dell’Aifa dimostrano che al sud e nelle isole il consumo di farmaci è più elevato «probabilmente a causa del peggior stato di salute, che potrebbe essere associato a uno stile di vita non corretto», spiega il direttore generale dell’Agenzia Nicola Magrini nell’introduzione del rapporto.
Non è una questione etnica o geografica: l’uso dei farmaci, emerge dall’analisi, è più elevato nelle aree più svantaggiate. Lo si osserva confrontando, come fanno gli autori del rapporto, i dati sui consumi di medicine con la mappa dell’«indice di deprivazione socio-economica», un numero che tiene conto del livello d’istruzione, dell’occupazione, della composizione del nucleo familiare, della densità e della condizione abitativa della popolazione. L’associazione tra abuso di farmaci si inverte solo per i farmaci anti-depressivi (più utilizzati al nord e dalle donne) e per quelli anti-demenza (più diffusi nelle regioni centrali).
Le regioni in cui si va più spesso in farmacia per comprare le pillole sono le stesse in cui ci si va di meno per vaccinarsi. Solo in Calabria e Sicilia, per esempio, la percentuale di persone completamente vaccinate è ancora inferiore al 70% (oltre alla provincia di Bolzano, storica enclave no vax). La contraddizione tra i due dati è solo apparente. Laddove la medicina di territorio funziona, le vaccinazioni, strumento di prevenzione per eccellenza, sono più diffuse e si dedica maggiore attenzione allo stile di vita. Che a sua volta genera un minore fabbisogno di farmaci. Lo confermano gli indicatori dei Livelli Essenziali di Assistenza messi a punto dal ministero per valutare l’assistenza sanitaria nelle varie regioni. Secondo l’ultimo monitoraggio, pubblicato lo scorso luglio, proprio Sicilia, Calabria e Alto Adige si sono collocate agli ultimi tre posti della classifica nazionale nell’area della prevenzione sanitaria.
I dati Aifa confermano che per migliorare lo stato di salute delle persone occorra agire sui fattori socioeconomici che lo determinano. Come spiega ancora Magrini, «non possiamo non essere tutti consapevoli della modificabilità di questi determinanti». È un appello implicito affinché la politica (non solo quella sanitaria) intervenga, magari sfruttando le risorse messe a disposizione dal Pnrr. L’importanza dei determinati socio-economici della salute è emersa negli ultimi decenni soprattutto grazie al lavoro di ricerca dell’epidemiologo inglese Michael Marmot, autore dell’importante La salute diseguale (Il pensiero scientifico, 2016) e intervenuto alla presentazione del rapporto Aifa. Non è un approccio banale come sembra: al contrario, esperti e decisori politici hanno spesso trascurato questi fattori. Grazie anche ai travolgenti sviluppi della biologia molecolare degli ultimi decenni, gli scienziati hanno dedicato molte risorse in più a cercare l’origine genetica della predisposizione alle malattie. E questo ha generato l’impressione sbagliata che la salute di un individuo possa essere esaminata senza considerare il suo contesto sociale.
In altri casi, come nella lotta al cancro, ha portato spesso a confondere la «prevenzione» della malattia con la «diagnosi precoce». Anche molte scelte discutibili operate durante la pandemia – si pensi alle strategie anti-pandemiche che hanno riguardato migranti, detenuti, alunni e lavoratori – sono nate da questo errore.
Il Manifesto – 16 settembre 2021
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