Il percorso di ricerca e sviluppo di un nuovo farmaco è un’impresa lunga, costosa e soggetta potenzialmente a un rischio molto elevato di fallimento. Tuttavia, negli obiettivi che pongono delle sfide importanti e negli inevitabili incidenti di percorso, la ricerca coglie quasi sempre nuovi stimoli per rivedere criticamente i propri modelli e individuare strategie più mirate ed efficaci.
È per questa ragione che mi sento di affermare che la recente rinuncia di una nota multinazionale farmaceutica a proseguire la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci per le malattie di Alzheimer e Parkinson non deve allarmare né far cessare la speranza di una terapia.
Sappiamo che il numero dei pazienti con demenza di Alzheimer è destinato a crescere nei prossimi anni: gli attuali 47 milioni di pazienti nel mondo potrebbero diventare 76 milioni nel 2030 e 135 milioni nel 2050. Considerata l’incidenza crescente delle malattie neurodegenerative in tutto il mondo occidentale, lo studio di nuove e più efficaci terapie è e sarà una delle principali priorità di salute a livello globale.
Gli studi sono oggi sempre più orientati alla condivisione dei dati della ricerca e a modelli collaborativi, come consorzi e partnership pubblico-privato, volti a valorizzare la sinergia tra le competenze, le risorse e i diversi interessi degli attori in gioco.
A fronte di alcune rinunce legate a legittime scelte di business, quindi, la ricerca dedicata alla demenza di Alzheimer prosegue. Gli studi clinici condotti a livello mondiale sono 190 e coinvolgono circa 100 principi attivi. Di tali sperimentazioni 47 sono nelle ultime fasi di sviluppo (fase III e IV). Gli studi riguardano varie popolazioni target e diversi meccanismi d’azione: la cascata dell’amiloide è il target dominante, seguita dalla proteina tau, ma su anche altri bersagli. La ricerca e l’identificazione di biomarcatori specifici è e sarà sempre più determinante. Per quanto riguarda l’Italia, sono attualmente in corso 71 studi clinici dedicati alla demenza di Alzheimer, di cui oltre 40 in fase avanzata (fase III o IV).
Abbiamo quindi, da una parte, l’arrivo di molecole già in fase avanzata di sperimentazione clinica che rallentano l’evoluzione della malattia e saranno efficaci soprattutto nella sua fase iniziale; dall’altra l’individuazione di biomarcatori che consentono di intercettare i pazienti nella fase prodromica della patologia in modo da poter utilizzare in modo efficace e mirato i nuovi farmaci quando saranno disponibili. Su quest’ultimo fronte, l’Italia ha avviato un progetto unico, molto ambizioso, denominato “Interceptor”, finanziato con 4 milioni di euro dal Ministero della Salute, da cui ci attendiamo preziose ricadute cliniche e regolatorie. Oltre a un beneficio diretto per i pazienti, che potranno avere tempestivo accesso alle terapie appropriate, i dati forniti dallo studio consentiranno una programmazione più efficiente e sostenibile degli interventi sanitari.
Potremmo assistere nei prossimi 5 anni all’arrivo sul mercato di molecole capaci di modificare il naturale decorso della malattia.
Mario Melazzini
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