Mentre in Italia si fatica a trovare le coperture per assicurare a tutti i pazienti, il (costosissimo) farmaco che cura l’epatite C in India costa un decimo e in Egitto è gratis. Tutto merito di accordi e di pratiche curiose. Ma che funzionano.
di Cristina Piotti – 21 dicembre 2015 – IO DONNA CORRIERE DELLA SERA
Prendi un farmaco innovativo, in grado di curare in poco più di 18 mesi l’epatite C, e in modo definitivo. Metti che la cura, costosissima, stia mettendo a dura prova le finanze pubbliche di diversi Paesi occidentali, mentre in Egitto e in Bangladesh i pazienti hanno accesso alla terapia gratis o a prezzi estremamente ridotti. A patto di sottostare, in qualche caso, a pratiche e obblighi quantomeno discutibili. Ecco allora che si apre un caso internazionale che parla di accesso a medicinali salvavita e disparità geografiche, dove per un volta ad essere avvantaggiato è il sud del globo.
Volendo ricordare la vicenda, tutto nasce a fine 2014, quando l’azienda californiana Gilead immette sul mercato il Sovaldi, in grado di eliminare il virus dell’epatite C con un’efficacia altissima (90% dei casi trattati). Una cura che ha del miracoloso, una salvezza per i milioni di pazienti che nel mondo si trovano a rischio di sviluppare malattie mortali, complicazioni dell’epatite C (HCV), come cirrosi o tumore al fegato. Peccato che il costo della terapia sia a dir poco esorbitante, nonostante il ciclo completo duri poche settimane: si parla, indicativamente, di 40 mila euro a trattamento, secondo alcune stime. Una spesa smisurata, che ha obbligato assicurazioni sanitarie e governi ad un giro di vite (letteralmente) è che in Italia si è tradotto, nella maggior parte dei casi, nel dare la precedenza ai casi più gravi – ma anche nella richiesta di segretezza sulle cifre, perché il farmaco è distribuito a un costo concordato tra l’azienda americana e Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, costo che nessuno conosce. In Italia come all’estero, la questione ha fatto esplodere le polemiche. Sotto processo la Gilead, che ha sempre difeso il costo del farmaco, ma che è comunque stata chiamata a rispondere alle dure accuse di una inchiesta della Commissione finanze del Senato Usa, questo mese.
Nel frattempo, però, la stessa pillola ha fatto la sua comparsa in Bangladesh, Paese dove la società statunitense non ha brevetti che ne proteggano la proprietà intellettuale e la produzione. Il prezzo? 10 dollari appena, a pastiglia. Altri Paesi hanno seguito l’esempio, come l’India: le big della farmaceutica del subcontinente anche in passato hanno prodotto varianti low cost e generiche di pastiglie salvavita, perché Delhi non ha riconosciuto la patente di questa o quella molecola. Il copione si è ripetuto, con l’ufficio brevetti indiano che ha negato la sua approvazione al Sovaldi e, spalle al muro, l’azienda americana ha dovuto cedere ad un accordo. Ecco che oggi diversi produttori indiani sono in grado di vendere la terapia per circa 600 euro a trattamento.
Ultimo tassello, l’Egitto riporta il New York Times. Al di là del mero racconto dei fatti (un accordo che la Gilead ha stretto con il Cairo permette l’accesso al medicinale a prezzi ridotti di un decimo, quasi, rispetto agli Usa), il tema mostra la disparità sull’offerta farmaceutica che sta dividendo il mondo. Poche nazioni hanno più bisogno della cura dell’Egitto, che conta la più alta diffusione del virus al mondo, dovuta all’utilizzo di aghi mal sterilizzati nelle campagne di vaccinazione contro una parassitosi, la schistosomiasi, negli anni Settanta. Ma, chiuso l’accordo, la Gilead ha anche ottenuto contromisure precise per evitare che le economiche pastiglie finiscano, per estensione, in Europa o Usa, attraverso il mercato nero (e quindi, online). Queste misure, che hanno fatto esplodere l’indignazione di gruppi per la difesa del malato, sono essenzialmente due: le pillole sono vendute solo da farmacie controllate dal governo e il paziente deve aprire la confezione e assumere la prima pastiglia davanti agli occhi del farmacista. Una misura estrema, limitante. La prospettiva di guarigione, però, ha forse un effetto collaterale: rendere meno pungente questa pratica umiliante.
Ma non ha diminuito minimamente la temperatura del dibattito.