Il contratto di lavoro individuale si colloca evidentemente all’estremo opposto rispetto al contratto collettivi nazionale, ma in questa opposizione non sono in gioco soltanto architetture contrattuali. La insistita proposta di tale tipo di contratto rappresenta infatti una negazione autoritaria delle stesse ragioni di esistenza del sindacato dei lavoratori. Tre secoli fa, essi cominciarono ad associarsi in vari modi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Nessuno poteva sognarsi da solo di ottenere simili progressi. Troppa era la debolezza contrattuale di ciascuno di fronte al potere economico, politico e sociale degli imprenditori, dei mercanti, delle pubbliche autorità. Però l’unione di mille o diecimila debolezze realizzata con qualche forma di associazione poteva dar luogo a un soggetto collettivo in grado di opporsi con efficacia al potere dei padroni e dello stesso governo. Come scrisse una volta per tutte Adam Smith in “La ricchezza delle nazioni” (1776), gli interessi delle due parti non sono affatto gli stessi, e per entrambe l’associazione è indispensabile al fine di difenderli. «Gli operai – scriveva Smith – desiderano ottenere quanto più è possibile, i padroni di dare quanto meno è possibile, i primi sono inclini ad associarsi per innalzare il prezzo del lavoro, i secondi ad associarsi per abbassarlo». Il livello del salario «dipende dal contratto concluso ordinariamente tra le due parti». Cioè tra le associazioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro.
Anziché riconoscere il naturale conflitto di interessi che rende indispensabile l’associazione sindacale e il contratto collettivo, l’idea pre-smithiana del contratto individuale si fonda sul presupposto della uguaglianza di diritto tra le due parti. Un presupposto che ignora l’abissale disuguaglianza di risorse economiche e giuridiche, di mezzi di sussistenza, di peso politico, di capacità di resistere senza lavorare e produrre che sussiste tra il singolo lavoratore e l